Il diario di oggi è di Tommaso, che ci parla del cambiamento
Cara Miriam,
credevo che il “mio” anno del cambiamento fosse stato il 2019, per quanto le (pur importanti) trasformazioni che ho attraversato, a fine anno non fossero ancora complete. Del resto, non si arriva mai.
Non potevo, così come nessuno poteva, immaginare uno stravolgimento come quello del 2020. Così radicale, così universale.
Guardo molto all’indietro, sono schiavo dei ricordi. Il che è bizzarro, perché il mio passato è recentissimo: comincia cinque anni fa, e ad aprile ne compio trentatré. Costruisco ogni nuova esperienza sulla base di quelle passate: questo dovrebbe condannarmi a una monotona stabilità, eppure ogni anno mi ha portato a degli stravolgimenti – obiettivi, attività, persino ambizioni.
Rimpiango molto il tempo perso: dove sarei, cosa farei, se non fossi “nato” così tardi?
Sto lavorando molto, in queste settimane, ma quel che mi turba di questo periodo è proprio il periodo: il tempo – l’impossibilità di movimento che ci tiene fermi sotto una campana di vetro.
Uno dei cambiamenti più belli dello scorso anno (e prosegue in questo), è stato l’incontro con una meravigliosa dottoressa con la quale ho un colloquio a settimana, a Milano in zona Porta Romana. Ci vediamo comunque, su Skype (mi vede nella soffitta che era la “grotta” di mio padre), ma ciò non lenisce la nostalgia dei percorsi prima e dopo il colloquio, di quello spazio di libertà di qualche ora a settimana, per andare a zonzo, ritirare i libri da Hoepli. Mi manca quella liturgia, mai identica a se stessa, basata sulle tappe di un percorso fatto con mia madre: i negozi in cui l’ho accompagnata, la pizzeria e la gelateria in cui abbiamo pranzato, la chiesa di San Satiro in cui mi ha fatto scoprire l’inganno di Bramante, la piazza San Babila dove siamo andati a teatro e da dove abbiamo cominciato la camminata per visitare una zia.
Un dettaglio crudele di questi giorni, è il cielo perennemente limpido, costantemente blu: non soltanto per la frustrazione di doverlo guardare, salvo qualche passeggiata con la scusa del cane da portare a spasso, da dentro le finestre; anche perché mi ricorda due viaggi – a New York e a Lione.
Scrivo queste note nel Venerdì Santo, rimettendo insieme i pezzi di qualche periodo pasquale degli anni scorsi. Sarà la prima Pasqua in isolamento, e a fine mese ci sarà il mio primo compleanno nelle stesse condizioni. Un dettaglio crudele di questi giorni, è il cielo perennemente limpido, il cielo costantemente blu (con buona pace del luogo comune della pasquetta sempre piovosa…). O una volta che, proprio
lo scorso aprile, fui ospitato per la notte di fronte alla torre della RAI…
illuminata di blu. Quando ne tornai, il mio capo pubblicò un mio articolo su
di un libro su Saint-Exupéry (a proposito di cielo) comprato a Lione, dopo di
che ascoltai un disco di Bryan Ferry con la copertina blu. Ieri ho riletto un
libro su Craxi, con in quarta di copertina non dei rossi garofani, ma una
distesa blu.
L’estate scorsa, prima d’un colloquio da quella splendida dottoressa,
nel cielo di Milano vidi stagliarsi aerei pilotati da colleghi (forse più prosaici)
di Saint-Ex… ho poi comprato un orologio dal quadrante color del mare, che
inaugurai proprio a quei colloqui. In questi giorni lo indosso, mi fa pensare a
quei mesi, che spero tornino presto.
Lo stesso cielo di Roma, lo scorso settembre, quando intervistai il caro
Maestro Pupi Avati. Un percorso celestiale, prima e dopo quel bell’incontro:
dalla facciata bianca del Gesù che si staglia su di un blu intensissimo, a Piazza
del Popolo e al cupolone di Michelangelo. Sono stato felice, a Roma, in certe
giornate temporalesche, con l’atmosfera elettrica, e un mistero tutt’attorno.
Ma la giornata ideale, a Roma, è così: come in un film degli anni ’70. Mi ha
invece fatto malissimo, rivedere quei luoghi deserti. Infatti il buon Avati,
nella sua bellissima lettera alla RAI, ha scritto d’un “silenzio cimiteriale in
una città morta”. Ho avuto paura per lui, e per il mio ricordo con lui e per
altri, legati a Roma: una bellissima famiglia di Prati, dei magnifici ragazzi
genovesi con i quali ho condiviso tre soggiorni capitolini (tra la Balduina e
Torre Argentina, con tradizionale cena in fraschetta), la mia mamma che
insiste per farmi un regalo nel negozio della Roma.
Adesso vorrei tanto che ricominciasse il futuro. Prima che questo
disastro dilagasse, avevo cominciato un nuovo percorso, col Corpo di Soccorso
dell’Ordine di Malta. Ma proprio l’emergenza mi ha impedito di svolgere le
visite mediche necessarie all’ammissione. Sono impaziente di sbrigare questa
incombenza, e cominciare a essere parte di qualcosa, di un gruppo che mi
sembra bello, grande.
Disastro che ha colpito la mia famiglia, facendomi improvvisare
infermiere. Sono tornato, per svolgere questo “servizio”, in un luogo della mia
infanzia: ho ripensato spesso al mio nonno Franco, un uomo molto
intelligente stroncato dalla sua sola stupidaggine – la dipendenza dalle
sigarette – diciannove anni fa. Ho ripensato alle partite a carte, al calcio in
tv, ho rivisto la sedia su cui faceva le parole crociate e il tavolo su cui, dopo,
puntellava il gomito per dormire con la testa appoggiata alla mano.
Spero che ricominci presto un futuro in cui, l’intrecciarsi e il ripercorrere dei
ricordi, ne portino altri.
Moltissime grazie Miriam! Sarei felice di essere accreditato con nome e cognome. Buona serata, e per domani tanti auguri di felice Pasqua!
Ciao Miriam, ciao Andrea. Sono Laura e sono di Napoli. Ecco qui la mia, personale, pagina di diario di questa interminabile quarantena. L’evento raccontato risale al 15 marzo, eravamo già in isolamento e, per quanto mi riguarda, rappresenta il fulcro di tutto questo periodo.
ANDRA’ TUTTO BENE
Ho fatto una torta per sentire profumo di domenica. È senza latte e senza lievito, per farla provare anche a mia madre. Io non potrò mangiarla ugualmente, ma non mi importa. È piuttosto bassa, ovviamente, ma la mia cucina sa di buono lo stesso. Ché basta un po’ di immaginazione – e di spirito di sacrificio – per dare alle cose che non sono come vorremmo una parvenza di ‘normalità’. Un po’ come il caffè decaffeinato, il dolcificante al posto dello zucchero, l’hamburger vegetale, o una domenica di marzo piena di sole e di primavera chiusi in casa in isolamento forzato.
Sono le 20:20 circa ed io ho paura. Non ci voglio andare in ospedale, chi mi garantisce che sia un posto davvero ‘sicuro’? Non ho la mascherina, mia madre e mio marito non potranno accompagnarmi, sarò sola. Li guardo addentare la mia torta, “È buonissima, Laura. Diversa, ma buona!”. Invidio la loro apparente serenità. Come si fa? Qualcuno mi insegni a mantenere la calma, qualcuno mi spieghi come si può tenersi dentro le emozioni! Poi succede ciò che mi aspetto: rompo le acque. Chiamo la ginecologa, non c’è tempo da perdere, signora, sì, le si sono rotte le acque. Non ho modo di pensare, mi sfilo il pigiama, mi vesto in fretta, prendo la valigia già pronta da almeno un mese. Soffrirò? Avrò qualcuno al mio fianco?
Niente dolori, non ancora, almeno. È mezzanotte passata, eccoli, cominciano. Tollerabili, io ho con me un romanzo, lo apro come nulla fosse. Capitolo 32, “La Casa della Gioia” mi tiene compagnia fino a che non ne posso davvero più. Il tracciato dura più di un’ora, io soffro in silenzio, conserva le energie per il parto, Laura. Sono lucida, con me c’è solo un’ostetrica e un dottore, ho la sala parto interamente per me. Si prepari per la visita, io cammino a mala pena fino a quella stanza bianca che ho sempre e solo immaginato. La dilatazione è completa, signora, ci prepariamo per il parto. Ma come? Di già? Non ci credo, ma sono pronta, non lo sono mai stata così tanto. Ho qualche difficoltà, non ce la farò mai, mi ripeto. Poi il dottore mi aiuta, mi spinge sulla pancia, io grido per inerzia, il peso è intollerabile. Due spinte, poi tre, poi quattro. Niente. Infine… Apro gli occhi, il dottore si sposta, mio figlio è a testa in giù, piange ed è sporco di sangue. È sulla mia pancia, piango anch’io, lo guardo negli occhi per la prima volta. Sono libera, penso, è finita, niente più paura. La porta della sala travaglio di fronte al corridoio mi mostra una scritta colorata, “Andrà tutto bene”. Mi guardo la manica della camicia rossa di sangue e rido tra le lacrime, è il momento più felice della mia vita.
3.330 kg di umanità – tre volte il numero perfetto – ma in tre lo saremo solo a casa, quando finalmente conoscerai il tuo papà, amore mio. Conoscerai la tua casa, il mio mondo in bianco e rosa, i colori che adoro. Gli stessi colori del Fior di Fragola, il gelato a cui, d’estate, da bambina, non rinunciavo mai. Ti accorgerai presto che adesso è macchiato anche un po’ di azzurro. Per te. Sei arrivato a poche settimane dalla Pasqua, in un momento in cui il mondo sta scrivendo una pagina di Storia. Vorrei poterti dire che domenica prossima ti porterò a vedere il nostro mare, per fartene sentire l’odore e insegnarti presto a riconoscerne il rumore, ma non è ancora il momento. In fondo “sei nato a Napoli sotto il segno dei Pesci”, come potrà non piacerti il mare? Imparerai ad amare le infinite contraddizioni della tua meravigliosa città, la sua pizza, il suo caffè, le sue sfogliatelle, le sue grida, la sua inconfondibile lingua. Ma non è ancora il momento. Conoscerai la musica di zio Pino, lo zio di tutti i napoletani, e ti innamorerai sulle vibrazioni della sua inimitabile chitarra. Ma non è ancora il momento.
Ti prometto la primavera, QUESTA primavera, quella che “cambierà l’Europa, che renderà la gente più sincera e che porterà la pace”. Arriverà, oh sì che arriverà. Non è ancora il momento, ma nel frattempo aspetteremo dietro ad un vetro che i raggi del sole d’estate ci abbronzino il viso. In fondo, lo sappiamo solo noi. La natura fa il suo corso, il Vesuvio dal nostro balcone è più bello e nitido che mai. Aspetteremo insieme, e sarà bellissimo. Te lo prometto.
Lascio qui il mio frammento di diario.
La foto l’ho inoltrata su Instagram profilo 1000km
Ciao Miriam ed Andrea sono Elisabetta di Milano e sono una dipendente Ikea ….
Milano 11 Aprile 2020
Pagina di diario di una dipendente Ikea.
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Oggi è esattamente un mese da quando Ikea ha dovuto chiudere i negozi a causa della pandemia annunciata.
Questa è la mia ultima immagine prima di uscire dal lavoro.
Mi manca il caos, la frenesia delle persone che quotidianamente passavano in negozio.
Mi mancano pure le lamentele dei clienti.
Mi mancano i colleghi/ghe.
Mi mancano i saluti, i sorrisi di ogni persona.
Mi manca persino comprare in negozio il salmone e i miei tovaglioli fantastik, mia tappa fissa prima di uscire dal negozio dopo una dura giornata lavorativa.
Quanti weekend a lavorare e non a stare a casa, quanti km spesi in tangenziale ovest/est di Milano per raggiungere Ikea.
Eppure ora pagherei per essere in quella casetta gialla blu. .
Mi sembra che stiamo vivendo un incubo, il peggior incubo che ha decimato vite umane, che ci ha privato della libertà di stare vicini, di abbracciare, di passeggiare, di andare in un negozio, di viaggiare, di stare con le persone che amiamo, di andare a fare la spesa senza dover stare attenti alle distanze in sana tranquillità.
Mi manchi Ikea 💙💛
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Mi sento fortunata e protetta a stare a casa, non nego in questa realtà, non mi annoio nelle quattro mura domestiche, come molti dicono, ma spero che al più presto torni tutto meglio di prima. …
E, quando arriverà quel giorno rivedrò con piacere l’immagine in foto e varcherò, con entusiasmo, la soglia del mio posto di lavoro. .
Con questo frammento di diario, auguro anche a tutte le persone in Italia e nel mondo che possano ritornare presto a lavorare o possano presto trovare un lavoro … e, sopratutto, abbracciarCi, sorridere e scambiarci chiacchierate, perché no?, mentre facciamo acquisti o siamo in vacanza o in qualunque luogo del mondo in cui ci troveremmo .. 💚