Miriam 31 – Today I feel weird, dear Andre.
Today I didn’t want to stop and think about anything, I was fleeing every moment of solitude, I did everything I could to keep myself busy, especially mentally. And so now, stopping and telling my day puts me in front of the real reason why I’ve been running away since I opened my eyes. Maybe today I started to realize, even after yesterday’s diaries where we discussed “the aftermath”, that I am walking towards a destination that most likely, indeed certainly – and you cannot understand the pain it causes me – won’t taste like I expected, won’t have the colours I know, the ways of comfort I love, the old habits that reassure me. It’s going to be black and white, perhaps tasteless, a destination that looks like something I know, but that is not known at all.
A halfway destination.
I wish I could say I’ll be happy, and probably I will, but it’s going to be a happiness so mixed up with melancholy that it will look much more like the latter.
Victor Hugo used to say that melancholy is nothing other than the happiness of being sad.
Maybe ours will be a new melancholy, it will be the sadness of being happy.
Or being half happy.
Andrea 31 – Feeling fifty percent good. No wonder. There are some people, more prone to change, that are feeling almost completely good. They’ve already found their dimension in this situation. Mainly it’s those who don’t live alone and who have adequate financial security, having a stable job even in this situation. A friend of mine told me that. He said he got rid of all the useless meetings and inefficient sides of his job and now, from home, he can manage the work in 4 hours instead of the usual 10 he would spend in the office. After 31 days, the ability to adapt in those particularly favourable conditions has already taken place. Inside the house, though. Yesterday I understood how difficult it will be to adapt outside these four walls. I went to collect the grocery shopping, my car was parked just outside the building and this is what I had to do: get out of the building, get in the car, drive for 8,8 km, get into the parking lot, wear a woollen scarf as if it was a medical mask, wear latex gloves, type a code on some kind of keyboard. Then they bring you the groceries, they leave the cart 2 metres from you, you load the groceries in the car, then drive back for another 8,8 km. You go back home. Human contact, almost non existent. Yet I felt I was in an episode of Black Mirror. I looked from the outside to a life I didn’t know. Turin seems to be doing well, it almost feels like an endless August, when you find a few people in the streets but of a peculiar humanity. Like the humanity I saw yesterday, of people running with jeans and many dogs in tow. But also a tender and yet afraid humanity, that of supermarket clerks, observed in a moment of pause when, exhausted by the job and the tension, they put off their medical masks to send a voice message to their parents or their friends. People working, whose advantage to go out everyday cannot be called like that anymore, because it looks more like a risk for the survival. And yet their movements are fluid. Maybe they were clumsy and awkward 31 days ago, when they still didn’t know how to behave between them, wearing medical masks that hide smiles and gloves giving rubbery handshakes. Like me yesterday, inexperienced inhabitant of a never-ending August.
Cara Miriam,
credevo che il “mio” anno del cambiamento fosse stato il 2019, per quanto le (pur importanti) trasformazioni che ho attraversato, a fine anno non fossero ancora complete. Del resto, non si arriva mai.
Non potevo, così come nessuno poteva, immaginare uno stravolgimento come quello del 2020. Così radicale, così universale.
Guardo molto all’indietro, sono schiavo dei ricordi. Il che è bizzarro, perché il mio passato è recentissimo: comincia cinque anni fa, e ad aprile ne compio trentatré. Costruisco ogni nuova esperienza sulla base di quelle passate: questo dovrebbe condannarmi a una monotona stabilità, eppure ogni anno mi ha portato a degli stravolgimenti – obiettivi, attività, persino ambizioni.
Rimpiango molto il tempo perso: dove sarei, cosa farei, se non fossi “nato” così tardi?
Sto lavorando molto, in queste settimane, ma quel che mi turba di questo periodo è proprio il periodo: il tempo – l’impossibilità di movimento che ci tiene fermi sotto una campana di vetro.
Uno dei cambiamenti più belli dello scorso anno (e prosegue in questo), è stato l’incontro con una meravigliosa dottoressa con la quale ho un colloquio a settimana, a Milano in zona Porta Romana. Ci vediamo comunque, su Skype (mi vede nella soffitta che era la “grotta” di mio padre), ma ciò non lenisce la nostalgia dei percorsi prima e dopo il colloquio, di quello spazio di libertà di qualche ora a settimana, per andare a zonzo, ritirare i libri da Hoepli. Mi manca quella liturgia, mai identica a se stessa, basata sulle tappe di un percorso fatto con mia madre: i negozi in cui l’ho accompagnata, la pizzeria e la gelateria in cui abbiamo pranzato, la chiesa di San Satiro in cui mi ha fatto scoprire l’inganno di Bramante, la piazza San Babila dove siamo andati a teatro e da dove abbiamo cominciato la camminata per visitare una zia.
Un dettaglio crudele di questi giorni, è il cielo perennemente limpido, costantemente blu: non soltanto per la frustrazione di doverlo guardare, salvo qualche passeggiata con la scusa del cane da portare a spasso, da dentro le finestre; anche perché mi ricorda due viaggi – a New York e a Lione.
Scrivo queste note nel Venerdì Santo, rimettendo insieme i pezzi di qualche periodo pasquale degli anni scorsi. Sarà la prima Pasqua in isolamento, e a fine mese ci sarà il mio primo compleanno nelle stesse condizioni. Un dettaglio crudele di questi giorni, è il cielo perennemente limpido, il cielo costantemente blu (con buona pace del luogo comune della pasquetta sempre piovosa…). O una volta che, proprio
lo scorso aprile, fui ospitato per la notte di fronte alla torre della RAI… illuminata di blu. Quando ne tornai, il mio capo pubblicò un mio articolo su di un libro su Saint-Exupéry (a proposito di cielo) comprato a Lione, dopo di che ascoltai un disco di Bryan Ferry con la copertina blu. Ieri ho riletto un libro su Craxi, con in quarta di copertina non dei rossi garofani, ma una distesa blu.
L’estate scorsa, prima d’un colloquio da quella splendida dottoressa, nel cielo di Milano vidi stagliarsi aerei pilotati da colleghi (forse più prosaici) di Saint-Ex… ho poi comprato un orologio dal quadrante color del mare, che inaugurai proprio a quei colloqui. In questi giorni lo indosso, mi fa pensare a quei mesi, che spero tornino presto.
Lo stesso cielo di Roma, lo scorso settembre, quando intervistai il caro Maestro Pupi Avati. Un percorso celestiale, prima e dopo quel bell’incontro: dalla facciata bianca del Gesù che si staglia su di un blu intensissimo, a Piazza del Popolo e al cupolone di Michelangelo. Sono stato felice, a Roma, in certe giornate temporalesche, con l’atmosfera elettrica, e un mistero tutt’attorno. Ma la giornata ideale, a Roma, è così: come in un film degli anni ’70. Mi ha invece fatto malissimo, rivedere quei luoghi deserti. Infatti il buon Avati, nella sua bellissima lettera alla RAI, ha scritto d’un “silenzio cimiteriale in una città morta”. Ho avuto paura per lui, e per il mio ricordo con lui e per altri, legati a Roma: una bellissima famiglia di Prati, dei magnifici ragazzi genovesi con i quali ho condiviso tre soggiorni capitolini (tra la Balduina e Torre Argentina, con tradizionale cena in fraschetta), la mia mamma che insiste per farmi un regalo nel negozio della Roma.
Adesso vorrei tanto che ricominciasse il futuro. Prima che questo disastro dilagasse, avevo cominciato un nuovo percorso, col Corpo di Soccorso dell’Ordine di Malta. Ma proprio l’emergenza mi ha impedito di svolgere le visite mediche necessarie all’ammissione. Sono impaziente di sbrigare questa incombenza, e cominciare a essere parte di qualcosa, di un gruppo che mi sembra bello, grande.
Disastro che ha colpito la mia famiglia, facendomi improvvisare infermiere. Sono tornato, per svolgere questo “servizio”, in un luogo della mia infanzia: ho ripensato spesso al mio nonno Franco, un uomo molto intelligente stroncato dalla sua sola stupidaggine – la dipendenza dalle sigarette – diciannove anni fa. Ho ripensato alle partite a carte, al calcio in tv, ho rivisto la sedia su cui faceva le parole crociate e il tavolo su cui, dopo, puntellava il gomito per dormire con la testa appoggiata alla mano.
Spero che ricominci presto un futuro in cui, l’intrecciarsi e il ripercorrere dei ricordi, ne portino altri.
Un affettuoso saluto. Tuo,
Tommaso
(giornalista dilettante)