Il diario di oggi è di Marco, che scrive dalla California. La sua è una riflessione profondissima su come i comportamenti umani incidano sulla natura che ci circonda. E parte da un’immagine del mare di Napoli, oggi bello come mai.Invitiamo Marco a raccontarci sempre di più le sue riflessioni e lo stile di vita degli Italiani all’estero. Grazie Marchì..
(Marco, Los Angeles) Carissimi Andrea e Miriam,
Le immagini delle acque del lungomare della nostra amata Napoli improvvisamente diventate cristalline come le cale della Sardegna che ben conoscete mi hanno fatto riflettere sul fatto che sia bastato così poco tempo di quarantena forzata per arrivare ad un risultato che poche persone ancora in vita hanno avuto il privilegio di ammirare. Le stesse persone che sono più a rischio dall’infezione del coronavirus, quelle che hanno vissuto, da bimbi o ragazzini, l’ultimo sconvolgimento globale. Le successive tre generazioni, quella dei nostri genitori, la nostra e quella dei figli del Millennio, sono state accomunate dall’aver goduto di un periodo di pace e prosperità senza precedenti nella vita moderna occidentale. Da quel conflitto è nato un mondo tutto sommato migliore, plasmato da progressi sociali, scientifici e tecnologici inimmaginabili fino a qualche decennio prima. Poi qualcosa si è inceppato. La crescente lontananza temporale dal conflitto mondiale ci ha reso superbi, ci ha fatto credere che nulla ci fosse precluso, che la crescita economica e il benessere non dovessero avere freni, e che la Terra potesse essere sfruttata e stuprata a nostro beneficio. Abbiamo quindi aumentato la pressione sulle risorse naturali, ritenute convenientemente illimitate. La nostra impronta è diventata sempre più pesante. Abbiamo portato in superficie quantità sempre crescenti di carbone fossile che ha avvelenato i nostri polmoni e quelli del pianeta già compromessi dalla distruzione insensata delle foreste. Abbiamo portato all’estinzione o sull’orlo dell’estinzione un numero spropositato di animali e piante, abbiamo riempito i mari e gli oceani di plastica che sta soffocando i pesci scampati alla pesca sfrenata. Siamo diventati un virus, più simile ad un Ebola che a un coronavirus, per la Terra, che si è ammalata, accaldandosi in tempi record, sciogliendo i ghiacciai la cui minaccia va ben oltre il trasformare molte città costiere del mondo in tante Venezia con l’acqua alta di qualche mese fa. Eppure sono almeno 30 anni che gli scienziati ci avvertono sulle conseguenze ecologiche di un capitalismo a briglie sciolte. Ne parlavano già i nostri libri di testo delle scuole medie, ricordate? Gridano, purtroppo nel vuoto, che il cambiamento climatico è una minaccia alla sopravvivenza della nostra specie, che di questo passo lasceremo una vita infernale ai nostri nipoti e pronipoti (o forse già ai nostri figli?). Da 17 anni ci mettono in guardia da pandemie sempre più frequenti, che chiedono ai governi di farsi trovare pronti. Ma si tratti di riscaldamento globale o pandemie la reazione è stata la stessa, non abbiamo ascoltato. È quello che noi umani di solito facciamo. Preferiamo rimuovere pensieri scomodi e nefasti. Continuiamo a vivere come fossimo invincibili e immortali, e solo quando la sofferenza e la morte arrivano nelle nostre città, nei nostri quartieri, nelle nostre case, riusciamo finalmente a prendere consapevolezza e a reagire. I nostri nonni lo fecero. Reagirono. Ci regalarono la libertà, con le armi. I nostri padri forse saprebbero usarle in caso di necessità. Noi siamo stati ancora più fortunati, abbiamo evitato anche la leva militare. Ma ora anche noi abbiamo avuto la nostra guerra, perché una pandemia di queste proporzioni non è che una guerra in tempo di pace. Quando questo incubo sarà finito, e finirà grazie anche alla nostra mobilitazione, o meglio immobilizzazione, ci sarà inevitabilmente disoccupazione, disperazione, fame, miseria. Non sarà il ’45 ma non sarà facile. Dovremo ripartire. Nel dopoguerra i nostri nonni ci riuscirono, e i nostri genitori, quelli della meglio gioventù, perfezionarono l’opera. Ma noi non dovremo seguire la loro ricetta, che inizialmente funzionò, salvo poi diventare tossica. L’obiettivo non dovrà essere quello di tornare allo status quo del pre-pandemia. Perché quel modus operandi non stava funzionando, o meglio stava funzionando solo per noi, che non riuscivamo, non volevamo, guardare più in là del nostro dito, ma non per il pianeta che ci ospita. Ora abbiamo anche noi la possibilità di lasciare finalmente una traccia che non sia misurabile solo mediante discutibili indici economici di produzione e ricchezza. A fare questo siamo bravi, l’abbiamo ampiamente dimostrato, peccato però che questa bravura ci stia portando all’autodistruzione. Possiamo invece diventare il vaccino che prevenga ulteriori catastrofi. In realtà ci sarebbe anche la cura, è solo questione di volontà, politica, collettiva, individuale. Dovremmo, dovremo rivedere le nostre priorità. Andrà tutto bene? Ci sono segnali di speranza. Ne sono arrivati tanti da ospedali, balconi, blog, chat, videochiamate. Seppur costretti, abbiamo finalmente assaporato il ritmo di vita dei nostri nonni, riscoperto di colpo il piacere delle piccole grandi cose, di trascorrere più tempo a giocare con i figli, a cucinare, a leggere, abbiamo visto che i ritmi forsennati che ci hanno imposto e ci siamo imposti non sono ineluttabili. Abbiamo avuto la prova che basta ridurre il peso della nostra impronta sulla Terra per avere effetti immediati, aria pulita, mare cristallino anche in golfi metropolitani, animali che finalmente si riprendono quegli spazi che gli avevamo progressivamente sottratto. Uno studio recente prevede che, nonostante gli enormi danni già arrecati, basterebbero 30 anni di (inevitabilmente costose) misure correttive per rimettere in salute i nostri oceani. Laddove una volta l’uomo eresse una cortina di ferro ora c’è una densa foresta che ha rimarginato quella ferita che squarciò in due un continente appena uscito da una lunga guerra. L’uomo agisce, Gaia reagisce. La natura è resiliente, e pure noi sappiamo esserlo. Nelle emergenze di solito gli umani riescono a dare il meglio di sé. Il problema è sempre stato il dopo. Questo virus ha portato e porterà sofferenza, ma abbiamo la possibilità di dare un senso a questo dolore. Se ci riuscissimo un giorno potremmo considerare il coronavirus una benedizione sotto mentite spoglie. Rischiamo di diventare la prima generazione dell’epoca moderna a lasciare ai nostri figli un mondo peggiore di quello che abbiamo ereditato. Improvvisamente abbiamo la possibilità di cambiare rotta. Andrà tutto bene. Ripetiamocelo, con le dita a V. V come virus, V come vaccino. V come vita.
Sono perfettamente d’accordo. La storia è ciclica, siamo noi che dobbiamo farci trovare preparati. L’uomo non impara mai dal passato altrimenti non saremmo diventati una società che bada all’apparenza ed esclusivamente al presente senza guardare e pensare in prospettiva futura.
Per esempio quando si decide di aprire un libretto di risparmio lo si fa proprio in quest’ottica, perché si pensa sempre che i tempi della “ricchezza materiale” possano finire e quindi ci si premunisce. Ma quando questa ricchezza non è tangibile, è semplicemente nell’aria e in ciò che ci circonda facciamo finta di nulla, non ci rendiamo conto che ciò che non si vede c’è e prima o poi ci chiede il conto. La terra non può contenere tutti nostri rifiuti e la natura ha le sue regole che se infrante troppe volte alla fine cede e si ribella.
Il lassismo sociale di quest’ultimo decennio non lo avrei mai immaginato. Ho vissuto la mia adolescenza negli anni novanta in Italia e non era di certo un mondo migliore, c’erano tanti altri problemi, ma avevamo rispetto per chi ne sapeva di più e ascoltavamo molto di più. Eravamo la generazione del fare e del sapere, adesso ho l’impressione che ci sia un motto che no mi piace “fin che la barca va”.
Come dice Marco, se avessimo ascoltato scienziati, ricercatori e chi ha dato voce agli avvertimenti forse la pandemia non ci sarebbe stata oppure saremmo stati pronti in trincea.
Dopo questo periodo sarà difficile è vero, sarà dura molto più di prima ma forse non ci saranno più scuse.
Grazie Marco per questa tua riflessione! Mi sono permessa di rispondere perché mi piace interloquire con le persone, anche se non le conosco, soprattutto quando i pensieri sono sagaci.
A presto!
Giulia